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3 luglio 2015

UN IMMIGRATO CHE CE L’HA FATTA

di Lucio Palazzetti
Vittorio Tebaldi (a destra) con l'amico Romeo Bartoccini.
Questi giorni si è aggiunto ai numerosi cagliesi che frequentano abitualmente Piazza Matteotti aggirandosi fra i bar, le edicole, i gradini del Municipio, la barbieria di Brisigo e le solite macchine in sosta vietata, un nuovo personaggio, maschio, non più giovanissimo, elegante e dai modi gentili e raffinati, con un eloquio dialettale ineccepibile, del genere che non si riscontra oggi neppure tra i cagliesi che si definiscono di razza più pura, se non fosse per qualche occasionale scivolata catalana che rivela la sua attuale provenienza dall’Argentina, dove vive da oltre sessant’anni. Si tratta di Vittorio Tebaldi. Chi è Vittorio Tebaldi lo si capirà dall’intervista pubblicata qui di seguito, tradotta con il suo aiuto da una rivista Argentina dove è stata pubblicata. Ma com’è Vittorio Tebaldi bisogna frequentarlo per conoscerlo. L’ho già descritto come una persona a modo, ma devo aggiungere che è anche una persona con la quale si può parlare di quasi tutto, perché su quasi tutto lui è ben informato e dimostra di avere sempre fatto tesoro delle proprie conoscenze di averle elaborate con spiccata capacità analitica, sintetica e critica. Insomma è una persona colta, anche se la sua formazione culturale non proviene dai banchi di scuola o dalla frequentazione di biblioteche. Lui possiede una cultura costruita di giorno in giorno ascoltando per oltre cinquant’anni i commenti e le dispute che i clienti della sua barbieria sostenevano continuamente, col giornale in mano, su tutto: politica, attualità, cultura, sport, spettacolo, arte e via dicendo. La sua barbieria in San Miguel, un importante centro nei pressi di Buenos Aires, era molto ben frequentata, lui era intelligente e di buona memoria e il gioco è fatto. Queste sue doti, unite ad una spigliatezza e ad una intraprendenza non comuni, lo portarono a stringere rapporti confidenziali e di amicizia con personaggi di spicco del mondo della politica, della chiesa, dell’economia, della magistratura e si potrebbe continuare. Può vantarsi – e quando lo fa gli vengono le lacrime agli occhi – di essere stato tra i promotori e fondatori, e di essere stato per anni membro del consiglio di amministrazione, dell’Università di San Miguel, oggi Università Nazionale che vanta 18.000 iscritti. Ecco quindi com’è oggi Vittorio Tebaldi. Ma una volta, oltre sessant’anni fa lui era solo un giovane immigrato, senza arte né parte, sbarcato in Argentina in cerca di fare fortuna come tanti immigrati di oggi che vengono in Italia da mezzo mondo in crisi. La sua storia potrebbe essere di esempio per questi disperati in terra straniera, che da lui potrebbero imparare che con l’umiltà, l’iniziativa, la buona volontà, l’onestà, il rispetto delle regole, si può anche andare lontano.

VITTORIO TEBALDI, TESTIMONE DI VITA
Da Cuadernos de Historia, San Miguel (Argentina), ottobre 2014
Intervista di Celia Sales de Dellutri (Traduzione di Lucio Palazzetti)

Vittorio Tebaldi e la sua Ford A del 1930.
 “Tutti dicevano che la mia barbieria era di un orologiaio – dice Vittorio mentre accarezza con lo sguardo alcuni dei tanti orologi che fanno parte della sua collezione – perché sono innamorato degli orologi. Questo mio interesse è iniziato quando un orologio che avevo regalato a mia figlia venne quasi distrutto da un orologiaio incapace. Mi recai a parlare con Miguel Raab, un genio dell’orologeria, che mi insegnò i rudimenti del mestiere. Le pareti della mia casa ora sono piene di orologi antichi a pendolo, negli angoli ci sono orologi a colonna, comperati in aste pubbliche, che io con pazienza ho restaurato. Avevo anche l’hobby più lucroso di comperare auto usate che facevo riparare per rivenderle. Vendevo più o meno cinque macchine al mese. Possiedo ancora una Ford A del 1931 che venne usata per le nozze delle mie figlie e l’ho prestata agli amici quando si sposarono i loro figli”.
“Arrivai in Argentina – continua Vittorio – il 25 novembre 1952, proveniente da Cagli, dove nel 1947 era morto mio padre di setticemia. Mia madre era quindi rimasta sola con tre figli, una femmina e due maschi. Io ero il più piccolo e a dodici anni cominciai a lavorare nella barbieria di Domenico Pieretti (Mimmo), dove cominciai ad imparare il mestiere. Alla fine della seconda guerra mondiale la situazione economica delle famiglie era molto difficile. Le entrate erano scarse, e da Cagli molta gente emigrava. Mario Tebaldi, mio zio paterno, era emigrato in Argentina già dal 1926, lasciando sua moglie Anna Grilli (l’Anna d’ Gabanacc’) e sua figlia Lilia. Per tanto tempo la famiglia non ricevette notizie da Mario. Un giorno venne un signore, Agido Luciarini, di ritorno dall’Argentina, che ebbe una conversazione con Anna Grilli, durante la quale questa venne a conoscenza che il Luciarini vedeva tutti giorni il marito di lei Mario, il quale possedeva una grande barbieria in una città chiamata Villa Canas, in provincia di Santa Fé, ma non poteva viaggiare perché non aveva a chi lasciare la barbieria. Allora mia zia Anna venne a parlare con mia madre per proporle di mandare me a trovare mio zio Mario in Argentina e disse che se io non mi fossi trovato bene là, avrebbe provveduto lei stessa a pagarmi il viaggio di ritorno. Allora mia madre e zia Anna scrissero a zio Mario affinché predisponesse i documenti per potermi recare in Argentina. Quando partii per Buenos Aires avevo appena venti anni. Il viaggio con la nave Castelverde durò diciannove giorni. Era una nave da guerra trasformata in nave passeggeri. Durante il viaggio conobbi un italiano che era venuto in Italia a trovare la famiglia e rientrava in Argentina. Fu lui ad insegnarmi la lingua spagnola, di cui avevo appreso i primi rudimenti da mio padre, che era vissuto 10 anni con persone di lingua spagnola negli Stati Uniti. All’arrivo a Buenos Aires mi aspettava una signora che aveva una procura per prendermi sotto tutela dal momento che, per la legge di allora, a venti anni ero ancora minorenne. Venni così a conoscenza del fatto che mio zio Mario era accompagnato con questa donna che lo aveva sostenuto nei momenti difficili della integrazione in Argentina”.
“I primi dieci giorni a Buenos Aires venni ospitato in casa della famiglia di Miguel Mateo Fulco, che in seguito fu mio compare di nozze, dove venni accolto come un figlio. Dopo – racconta Vittorio – mi trasferii a Villa Canas dove vissi con mio zio Mario e la sua compagna per quasi un anno. Una notte rientrai tardi e mi chiusero fuori casa. Allora decisi di andare ad abitare in un alloggio diverso, pur seguitando a lavorare con mio zio Mario. La pensione era veramente fatiscente, si chiamava “La Piemontesa” e il proprietario si chiamava Luigi Blangero. C’erano una ventina di stanze in una baracca con il pavimento in terra battuta, il tetto in lamiera e con un unico gabinetto in comune. Come letto io avevo una branda di tela senza materasso e le altre tre persone che condividevano la stanza con me si coricavano in terra su una pelle di pecora. Lì ho imparato a bere il “mate”, la classica bevanda sudamericana, e a condividere le difficoltà con quei poveracci.  Ho vissuto più o meno sei mesi in queste condizioni. Sebbene sia rimasto così poco tempo in Villa Canas, ho ancora oggi la soddisfazione di rincontrare tanti amici di allora, con i quali ci siamo voluti un gran bene”.
“La mia aspirazione era quella di mettermi in proprio con una barbieria tutta mia – spiega Vittorio – per cui durante le ferie, che erano obbligatorie per un mese durante il quale la barbieria di zio Mario doveva chiudere, presi in affitto un’altra barbieria da un certo Triticchio. Fu così che misi da parte i primi soldi per poter realizzare il mio progetto di mettermi in proprio. Finché ricevetti una lettera di mia madre che mi chiedeva di recarmi a Buenos Aires dove stava per arrivare la nave Giulio Cesare. Lì avrei potuto incontrare un mio parente cagliese, Luciano Pantaleoni, in servizio come capitano di lungo corso su quella nave, il quale avrebbe potuto così portare a mia madre mie notizie. Ma l’incontro non fu come mi sarei aspettato. Quando partii per Buenos Aires, tre miei amici di Villa Canas, José Robea, Joaquìn Mateu e Francisco Ferrante, mi misero a disposizione un prestito di tremila pesos, con la quale somma sarei potuto rimanere a Buenos Aires. Allora, lasciato il porto, mi recai a salutare l’amico Miguel Fulco, che viveva in calle Moreno 2141, vicino a Plaza del Congreso. Poi mi sistemai a Quilmes con Romolo Sabatini, un sarto amico di mio padre che viveva con i suoceri e cominciai a lavorare come meccanico. Poco tempo dopo ebbi l’opportunità di affittare il locale di un calzolaio che stava per chiudere: con i risparmi che avevo e con il denaro che avevo ricevuto in prestito lasciando Villa Canas potei pagare anticipatamente l’affitto. In attesa di entrare in possesso del locale per iniziare la mia attività, andai a lavorare in una barbieria che stava a Bernal Oeste e mi sistemai in una pensione. Ben presto, pur essendo ancora un giovane di appena ventuno anni, entrai così in possesso di una barbieria mia. Acquistai presto molti clienti, l’attività prosperò e solo un mese dopo potei andare a Villa Canas a restituire il prestito. Le cose andavano molto bene e decisi di far venire mia madre in Argentina. Preparai tutti i documenti e da una organizzazione che favoriva i ricongiungimenti famigliari degli immigrati europei ottenni un sussidio per coprire il costo del viaggio. Mia madre dapprima mi assicurò di venire, ma alla fine mi inviò un telegramma per comunicarmi che non se la sentiva di intraprendere il viaggio. Avevo affittato anche una casa vicino alla barbieria e la stavo ammobiliando. La decisione di mia madre mi riempì di tristezza. Ciò che lei aveva deciso di fare non aveva senso per me. Dona Maria Castella, la proprietaria della pensione dove abitavo, che mi voleva molto bene e due miei compagni, l’ingegnere inglese Carlo Clodes ed il suo connazionale Bruno Dri, cercarono di consolarmi. Per farmi distrarre Bruno mi invitò ad un ballo in maschera che si svolgeva in casa della sua fidanzata. Fu lì che conobbi Adelaide Edit Chiesa, che in seguito diventerà mia moglie. Lei era vestita da bahiana ed era di San Miguel, ma viveva con la famiglia a Quiemes. Ci frequentammo un po’, poi ci innamorammo e dopo tre anni, nel febbraio del 1959, ci sposammo. Ci stabilimmo a San Miguel e diciassette mesi dopo nacque la nostra prima figlia. La chiamammo Maria Ersilia: Maria, come la proprietaria della pensione che era stata come una madre per me, e Ersilia, perché questo era il nome di mia madre. Il desiderio di conoscere la sua nipotina vinse le resistenze di mia madre che decise di affrontare finalmente il viaggio in Argentina. Arrivò a Buenos Aires il 25 novembre 1961, esattamente nove anni dopo il mio arrivo in Argentina. Rimase sei mesi con la mia famiglia, poi rientrò in Italia. Quando si congedò da me mi disse: “Posso morire felice perché tieni una buona moglie, una figlia, un lavoro e molte persone che ti vogliono bene, non tornare. Qui sei un signore.” Quattordici mesi dopo Maria nacque Flavia, la mia seconda figlia. Io non potei più rivedere mia madre, ella morì nel 1964. Ventitré anni dopo la mia partenza potei rivisitare per la prima volta la mia terra nel novembre del 1975”.
“A San Miguel aprii una barbieria in calle Italia 1073 e dopo cinque o sei anni inaugurai una barbieria in un locale molto grande in calle Belgrano 1253, vicino alla Cattedrale. In seguito vi aggiunsi un negozio di giocattoli, una tabaccheria, una rivendita di biglietti della lotteria. Nei tempi migliori arrivai ad impiegare cinque barbieri, una cosmetologa, una pedicure, una manicure e diversi commessi addetti alle vendite. Ma sopraggiunsero delle difficoltà quando feci da garante per un amico che ad un certo punto non poté onorare i debiti contratti. In quelle circostanze per pagare tutti i creditori dovetti vendere sette proprietà, compresa la casa di famiglia in calle Rodriguez Pena 1555, rimanendo solo con la barbieria di calle Belgrano. Nonostante questa brutta esperienza non allontanai l’amico, né gli serbai rancore. Durante una festa conobbi Laurentis, il direttore della succursale in San Miguel del Banco della Provincia di Buenos Aires, il quale nel corso della conversazione mi invitò ad andarlo a trovare. Quando gli feci visita mi propose un credito: con questo aiuto e con tanto lavoro riuscii così a ricompormi economicamente”.
“La disponibilità a effettuare servizi di barbieria anche a domicilio, specialmente agli abitanti delle ville del quartiere, mi permetteva di frequentare con la famiglia i migliori ristoranti dei dintorni, luoghi di ritrovo per molti sanmiguelinos. Un altro luogo d’incontro era la mia barbieria dove i miei clienti ed i miei amici si ritrovavano per chiacchierare. San Miguel era un esempio di bella e tranquilla città, la piazza era un giardino, controllata giorno e notte dalla vigilanza, una città dove tutti si conoscevano, i rapporti erano personali, e dove non esistevano porte chiuse a chiave. Qualche tempo fa – conclude Vittorio - la professoressa Clara Biscaro mi chiese di scrivere una mia testimonianza come immigrato. Lo feci affermando: “Sono un immigrato, però sento questa terra come mia, non sono un estraneo per lei”.”


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